di Sergio Vitale
L'articolo è stato pubblicato nel sito dell'Associazione Globo. Sergio Vitale è membro dell'equipe di Formatori del Centro di Formazione Globo di Brescia, dove vengono proposti Corsi di Formazione Triennale in Pratica Psicomotoria Aucouturier e formazione continua per insegnanti, educatori, psicomotricisti e le diverse figure professionali che si occupano di educazione e terapia a favore dei bambini. Il Centro Globo è riconosciuto dall'EIA, l'Ecole Internationale Aucouturier.
L’Italia è un grande condominio. Il mondo, in questi mesi, è un grande condominio. Che si apre all'esterno con i suoi balconi, le sue terrazze, e un’infinità di finestre reali e virtuali. Soprattutto virtuali. È un intreccio di voci e di rumori, di esperienze e di emozioni. Si vive al tempo stesso la vicinanza quasi ossessiva dell’altro e la sua mancanza, l’impossibilità del contatto corporeo.
La dimensione fisica e concreta del vivere si è ridotta drasticamente da un giorno all'altro, delegando al contenitore-casa l’onere di raccogliere tutto ciò che prima si distribuiva attraverso gli abituali canali del vivere quotidiano: lavoro, scuola, amici, e via dicendo. Che cosa racconterebbero le nostre stanze, se potessero parlare? Del ritrovamento di beni perduti, certamente: il tempo di leggere, il tempo di parlare, di mangiare insieme – rito ormai caduto quasi in disuso, negli ultimi decenni. Ma, lo sappiamo bene, non solo di questo. Parlerebbero anche di difficoltà e sofferenze, lì dove la convivenza non era un affare semplice nemmeno prima dell'emergenza sanitaria, lì dove c’è fragilità fisica e psicologica, conflitto, disamore.
L’emergenza spinge a un pensiero unico, quasi dittatoriale: non accetta che si parli d’altro. Dai telegiornali sono scomparse per quasi due mesi guerre e povertà, questione climatica e ogni altro grande tema. Tutto rimane sopito, sottotraccia, ma evidentemente non sparisce per davvero. Qualcosa di simile è accaduto probabilmente in molti appartamenti del grande Condominio-Italia. In onore dell’emergenza, molto è stato accantonato. Il concetto di benessere, per esempio, come se si trattasse di un lusso che non ci possiamo permettere, ma anche il concetto di infanzia, parcheggiata nelle scuole virtuali, di fronte al PC, e incarnate fisicamente da mamme e - un po’ meno, immaginiamo - da papà, che hanno svolto in questi due mesi un intensissimo tirocinio come insegnanti, educatori, maestre. Con la conseguenza, non proprio secondaria, di aver deformato il proprio ruolo genitoriale.
La casa è stata, è ancora, il nostro rifugio dal contagio, la spessa epidermide, la corazza sicura nella quale ci siamo ritratti, quasi «reinfetadoci», ritrovando attitudini forse arcaiche, simili ad armadilli o a tartarughe, in attesa che l’aggressore si allontani o che perda energia, sconfitto dal tempo.
Ma è proprio in questa epidermide che abbiamo scavato dei solchi, aperto finestre, per salvare la nostra socialità, un bene che non siamo disposti a perdere – per fortuna, verrebbe da dire. Ma l’esito non previsto (non del tutto, almeno) è stato quello di annullare qualsiasi filtro con l’esterno, abbandonando d’un tratto e totalmente la resistenza agli schermi e all'invasione telematica, che era pur sempre un aspetto – minoritario, forse – della nostra cultura pedagogica e delle nostra etica.
In questi giorni gli appartamenti del nostro Condominio sono affollatissimi, dalla mattina alla sera. In casa entra la scuola, il lavoro, la palestra; il laboratorio di taglio e cucito e il seminario di scrittura creativa; la lezione di pilates e il corso di karate; gli aperitivi online e le sante messe. Una massa di persone trabocca da ogni stanza, presenze immateriali che però possiedono un peso notevole, perché incidono tutte su alcune specifiche facoltà e su una sensorialità ridotta. Il corpo in presenza può essere silente, dire senza parlare, esprimersi in profondità attraverso piccoli gesti, e può rivelare molto di più delle parole, non in antitesi ma in complicità con esse. L’abolizione del corpo concreto sovraccarica l’aspetto visivo – così precario, poi, nelle dirette facebook e nei meeting di Zoom – e ipercognitivizza la relazione.
La scuola, per esempio, ha dato fin da subito un contributo decisivo a questo sovraffollamento e al sovraccarico del mentale, tentando di riversarsi così com’era nella rete, traducendosi alla lettera, creando un fraintendimento pericoloso. Naturalmente non è andata sempre così, ma spesso. Una scuola che, nei piani alti, non ha discusso sul senso delle proprie azioni se non a posteriori, una volta assicuratasi che il programma, in un modo o nell’altro, sarebbe stato portato a termine.
I bambini, specie i più piccoli, fuggono dalle videochiamate dei nonni - costretti a subire anche questo dolore - ma lo fanno a ragione, per difendersi, perché sono sani. Fuggono dall'incorporeità della relazione, dalla rarefazione dell’agire, dal predominio della parola – una parola confusa, distorta, fuori sincrono - e dall’annullamento del corpo. Non è stato però possibile per loro fuggire le chiamate degli insegnanti che, perduto il controllo diretto, si sono assicurati quello a distanza, prendendo «in ostaggio» mamme e papà. La scuola si è riversata con intraprendenza ma senza un progetto chiaro nella nuova dimensione virtuale e soprattutto ha perso di vista la relazione, probabilmente perché era già questo il suo punto critico. Non basta imparare a usare Zoom o Jitsi per inventarsi una buona didattica a distanza: bisogna mantenere il rispetto per la persona (compresa la propria) e avere bene in mente i principi della relazione educativa, prima ancora del programma. È necessario definire in maniera precisa il «quadro» di questa nuova relazione educativa – perché di questo si tratta, prima ancora che di didattica. Una relazione apparentemente semplice e diretta, ma proprio per questo facilmente «deformabile» e «deformante».
Di errori se ne possono commettere, ci mancherebbe, ma c’è il forte sospetto che la mancanza di progetti ben pensati non possa far altro che favorire l’accettazione acritica di una didattica «scorporata», nel senso etimologico del termine, cioè priva del luogo primario di apprendimento, che è il corpo nella sua globalità. L’illusione che la didattica possa essere ridotta a un semplice passaggio di nozioni è sempre presente, insiste su giovani e attempati docenti di tutti gli ordini, perché si accompagna a una promessa di «agilità» - come si dice oggi – di leggerezza e di novità. Liberata delle sue infrastrutture, la scuola potrebbe viaggiare più spedita – si pensa - farsi seduttiva, disinnescare in un colpo solo l’eterna diatriba tra vecchi e giovani, tra tradizione e innovazione. Ma, così intesa, la rivoluzione tecnologica rischierebbe di ridursi a una mera operazione di maquillage, il nostro vecchio corpo docente (chiedo perdono per la metafora) che si imbelletta, con i risultati nefasti e grotteschi che possiamo immaginare.
Per questo riteniamo che sia opportuno vigilare sui passaggi in corso, e soprattutto riflettere sul senso di quello che sta accadendo e che, con convinzione o con tacito assenso, stiamo avallando. Non si tratta di una resistenza al «nuovo che avanza», perché c’è da chiedersi cosa ci sia di nuovo in una scuola che allontana sempre di più il corpo del docente dal corpo dell’allievo, e tra di loro gli allievi; una scuola, ancora, che depersonalizza sempre più la didattica, invece che insistere sul significato pieno di «competenza», come indicato dalle «Indicazioni Nazionali» del 2012 e su quello di insegnamento individualizzato.
Noi della scuola abbiamo in realtà un pensiero alto: la scuola può fare cultura, in tempi come questi, e fare etica. Prendere in mano la questione alla radice e porsi come luogo di ispirazione, dettando dei passaggi che possono essere cruciali in questo momento. Non certo inseguendo il mondo del lavoro, nella sua ricerca di adattamento e di mantenimento del profitto, ma piuttosto facendosi luogo di educazione nel senso più pieno del tempo, di irradiazione di principi e valori nei confronti della società.
Una scuola, per esempio, che agilmente affronta l’ostacolo del distanziamento sociale inventandosi delocalizzazioni, aprendo i propri spazi, frequentando di più luoghi aperti, giardini e boschi. Una scuola che, sollecitata dalle misure emergenziali, possa finalmente confrontarsi pienamente con un modello di piccolo gruppo, il vero assente per un salto di qualità della scuola moderna. Una scuola che inventa, che investe su insegnati e spazi fisici, come sui materiali. Perfino impoverendosi: approfondendo la conoscenza dei materiali naturali, del gioco spontaneo, dell’apprendimento attivo e della cooperazione tra pari. Una scuola che può sì utilizzare la tecnologia per la propria didattica – come faceva del resto Freinet, alternando le escursioni all’aperto con il lavoro di composizione e stampa nella tipografia scolastica – ma senza cadere nell’inganno che fare tecnologia corrisponda all’uso passivo di sistemi di comunicazione a distanza.
Tutto ciò comporta innanzitutto investimenti: per pensare a spazi diversi, per formare i docenti e per assumerne di nuovi. L'emergenza sanitaria, gravando sul corpo sociale, ha messo in luce i punti più dolenti, ma al tempo stesso ha rivelato risorse: sensibilità e intelligenze, in particolare, che sono il vero patrimonio da cui ripartire. Il tempo sospeso della quarantena ci ha permesso di immaginare e di sognare, e in un breve lasso di tempo abbiamo compiuto dei passaggi che, in altri momenti, avrebbero comportato mesi di lavoro. Abbiamo osato e ci siamo fatti coraggio. Uscire dalla crisi significa cercare di adeguare la nostra società all’immagine che abbiamo intravisto in questi giorni e ogni misero adattamento rischierebbe di tramutarsi in una sensazione profonda di fallimento.
Comments