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Delle interazioni precoci non si sa nulla

Aggiornamento: 20 feb 2023

La banalizzazione della maternità nella società moderna


di Sergio Vitale, psicomotricista, TNPEE, Specialista in Pratica Psicomotoria Aucouturier - PPA® e Formatore.


La procreazione è l’evento più “normale” di questo mondo. Ovvio: è il motivo per cui il consesso umano, così come lo conosciamo, esiste. Anche la morte, però, è un evento normale, e per le stesse ovvie ragioni di cui sopra. Così come la malattia, l’incidente, la separazione, la perdita, la vecchiaia, il dolore fisico e psicologico, l’ansia, il conflitto. Nella vita di tutti il dramma è un dato comune, ma la rappresentazione che sembra predominare nell’inconscio collettivo – la “narrazione”, dovremmo dire – è che l’esistenza nostra e dei nostri cari, per qualche misteriosa ragione, debba essere più o meno felice, o perlomeno indenne da gravi perturbamenti, e il più possibile prevedibile.


Quando questa convinzione si sia insinuata nelle nostre menti, non è dato saperlo con precisione. Suppongo che abbia a che fare con la Modernità – sempre tendendo conto della prospettiva dalla quale il sottoscritto osserva e parla, e cioè ben posizionato in quella parte di mondo che definiamo “Occidente”, che produce e soprattutto consuma la maggior parte delle risorse disponibili sul pianeta da quasi un’ottantina d’anni, assumendo come data di riferimento per l’instaurarsi di questa supposta Modernità la fine del Secondo Conflitto Mondiale e l’inizio di quell’era di pace e sviluppo che da un anno circa sembra non essere più destinata a durare in eterno. Fatto sta che la felicità, la prevedibilità della vita, l’assenza di drammi eccessivi, sembrano a un certo punto essere divenuti dei diritti, più che delle fortunate e/o, più o meno, meritate condizioni esistenziali.


Ma l’atto stesso del nascere, o meglio, del mettere al mondo, fino a una manciata di decenni prima dell'inizio del nostro Mondo Moderno era associato tranquillamente al concetto di morte. Nel 1887 il tasso di mortalità infantile in Italia era di 347 morti ogni 1000 bambini sotto i cinque anni di età, vale a dire che meno di due bambini su tre sopravvivevano (dati Istat). Nel 2011 era di 4 su 1000. Ancora nei primi anni del Dopoguerra era di circa 150. Nascere era un rischio e un privilegio. Così come campare a lungo e senza troppe sofferenze. E questo fino a qualche decennio prima della nascita del sottoscritto e della maggior parte dei sui ipotetici lettori. Vale a dire fino a qualche generazione fa. Ciò significa che la madre di mia madre, per non parlare della nonna di mia madre, avevano una concezione completamente diversa, rispetto a mia madre e a mia moglie, della maternità – oltre che della vita in generale, immagino.


Il rischio di questa normalizzazione della vita è, va da sé, la sua banalizzazione. E ciò diventa evidente se si osservano con attenzione, da molto vicino, le tappe essenziali della vita, come, in primis, la venuta al mondo. Che sia un atto scontato, quasi gratuito e indenne da rischi è una convinzione comune, ma non sarebbe di questo avviso, io credo, il nascituro, se fosse dotato di una mente adulta in grado di pensare pensieri finiti. Lui, il bambino, la statistica la ignora; così come non possiede cognizione del complesso apparato medico-organizzativo che, grazie a dio, provvede alla sua venuta la mondo – almeno in questa parte di mondo e in epoca di Modernità. Ciò che invece possiede è un corpo fortemente immaturo rispetto a tutti gli altri mammiferi, che gli permette però di sentire, avvertire, perfino memorizzare, a livello implicito, tutto ciò che passa in quegli istanti fatali, così come nei mesi precedenti e soprattutto in quelli a venire quando, ancora impossibilitato a farsi capire e a capire, nei modi propri del mondo adulto, è però capace di comprendere a livello corporeo e di reagire in maniera consequenziale ai comportamenti messi in atto dai caregivers.

Perfino le madri, seppure immerse nel comune brodo culturale del modernismo, credo possiedano una memoria atavica circa la gravità – nel senso di importanza, di peso sostanziale – dell’atto procreativo e della nozione di Cura. Se così non fosse, sarebbe difficile comprendere come le donne siano ancora in grado di compiere quello sforzo sovrumano - e assolutamente inconcepibile nell’universo maschile – che comporta, tuttora, il mettere a mondo un figlio. Per le stesse motivazioni, sarebbe complicato comprendere le ragioni che portano la femmina umana a tollerare e perfino a vivere con piacere e piena soddisfazione le trasformazioni del proprio corpo e della propria psiche che seguono il concepimento, come pure quell’attivazione profonda sul piano affettivo/psichico/cognitivo che rappresenta tutta l’epoca delle prime cure. Sintonizzazione affettiva, rispecchiamento, contenimento, sensibilità e devozione materna, sono fenomeni psichici di un’importanza capitale che consentono letteralmente al bambino di costruire un apparato psichico che gli permetterà di condividere, pensare, comunicare, manifestare sentimenti, emozioni e desideri.


Ma su tutto quello che avviene in questa fase straordinaria della vita, in questi mesi felicissimi e drammatici della venuta al mondo di un bambino, continua a esserci un’incredibile e, permettetemi, insopportabile, sottovalutazione. Delle interazioni precoci non si sa quasi nulla. È argomento per esperti. O per i tanti siti frequentati da mamme (il più delle volte comprensibilmente ansiose) che veicolano versioni semplificate, a volte distorte, di questi studi, insieme a tante altre cosucce montessoriane utili per il futuro consumatore. Prova ne è, di questa ignoranza madornale, la maniera in cui è stata recepito nei reparti di neonatalità il concetto bowlbyano di “attaccamento”, così come il senso e il significato profondo dell’allattamento. I racconti dei genitori, non solamente delle madri, che raccogliamo quotidianamente, sono pieni di dolore, vergogna, senso di incapacità e frustrazione profonda ricavati dalle esperienze traumatiche del parto e soprattutto delle ore successive alla nascita del bambino.


Non voglio però insistere su questo versante: è preferibile certamente che ci sia un movimento nazionale e internazionale a favore dello skin to skin e dell’allattamento al seno; il problema è il come queste indicazioni vengono recepite e quindi veicolate all’utenza. Non si tratta di una questione eminentemente biologica, così come anche l’OMS la interpreta nell’indicare l’allattamento prolungato e “a richiesta” come “buona pratica” della maternità; si tratta di considerare come l'elemento biologico si traduce in affetti. Bowlby è stato accettato dalle comunità scientifiche, caso raro tra gli psicoanalisti, perché, per l’appunto, meno psicoanalista dei suoi colleghi. E così il concetto di attaccamento, proprio in quanto semplificante e culturalmente vicino a un linguaggio biologico-etologico, ha avuto il successo che ha, e in effetti ha concretamente contribuito a sdoganare il tema delle prime interazioni madre-bambino, ponendolo definitivamente in una posizione preminente, come testimonia, per esempio, la fortuna della Classificazione Diagnostica Zero to Three. Va ricordato, a questo proposito, che gli studi di psicoanalisti come Bowlby, ma molto prima, per esempio, di René Spitz, hanno letteralmente cambiato la concezione dell’infanzia, dimostrando con prove evidenti quanto le cure affettive fossero necessarie per la sopravvivenza e la sanità mentale dei bambini.


Prima, non era così, la scienza medica semplicemente ignorava la psicologia. Oggi accetta pienamente la visione naturalista-etologica di Bowlby e successori, ma il sospetto è che ami di questa costruzione teorica il riduzionismo che essa consente. E invece la vita psicologica è complessa. La maternità è incredibilmente complessa e al tempo stesso naturale. E fenomeni come le difficoltà di attaccamento o, se vogliamo, la mancata sintonizzazione affettiva, sono straordinariamente frequenti e producono effetti importanti, talvolta definitivi, sulla vita dei bambini. La depressione post partum è un evento normale, così come è normale la devozione materna e quell’atto quasi eroico che è far nascere e accudire un figlio. La madre, la donna, il suo stato psicologico-affettivo nell’epoca della maternità, rappresentano la questione essenziale della vita su questo mondo. L’obbligo degli altri, degli uomini e della società in generale, è favorire le condizioni essenziali che permettono l'instaurarsi di buone interazioni precoci tra madre e bambino. La vulgata dell’allattamento a richiesta e a oltranza, anche per svariati anni, la forzatura di una relazione immediata, pelle a pelle, tra genitrice e bebè, malgrado le condizioni fisiche e psichiche di lei, la visione un po’ (tanto) modaiola del bambino perennemente appeso a uno dei genitori, anche in epoche della vita in cui questa postura sarebbe altamente sconsigliata, appaiono invece come semplificazioni colpevoli e dannose di qualcosa di estremamente più ampio e articolato e, proprio per questo, immensamente più bello, più ricco e più importante di quanto il Mondo Moderno sia portato a pensare.

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