Il quarto articolo per il progetto "Chi sarà - Scienza in TrasformAzione" a cura di Paola Vitale e Liliana Putino, in collaborazione con Luisa Boffa e Sergio Vitale, pubblicati a partire dal 23 aprile 2020 all'interno della rubrica "Visto dal basso. Lo sguardo dello psicomotricista" tenuta da Sergio Vitale.
di Sergio Vitale
Spesso i genitori ci dicono: «Mio figlio ha bisogno di scaricarsi». Allora a volte rispondo: «Signori, vostro figlio non è una pila. Non è esattamente così che funziona».
È vero, il corpo esige, soprattutto in certe età della vita, una dose cospicua di moto. Ma un bambino agitato non cambia se corre tutto il giorno: semplicemente si stanca. La sera crollerà esausto o, peggio, sarà nervoso e irascibile. E la mattina dopo sarà uguale a prima. A meno che il suo movimento non abbia innestato dei processi trasformativi reali. Il gioco, per i bambini, ha questo potere: aiuta a stare meglio. Perché il gioco rappresenta una risorsa espressiva ricchissima che il bambino coltiva fin dai suoi primi giorni di vita, in quello scambio straordinario a livello corporeo ed emozionale costituito dalle interazioni precoci con la madre (o chi per essa). In questo modo si costituisce un’area di gioco e di piacere reciproco destinata ad allargarsi e ad arricchirsi col tempo, dentro la quale il bambino impara a conoscersi e a conoscere il mondo, sulla base delle corrispondenze tra le trasformazioni interne del proprio corpo e quelle esterne dell’ambiente circostante. «Io mi trasformo se tu ti trasformi»: non è l’apprendimento unidirezionale, da adulto a bambino, ma bensì la reciprocità a creare le basi per lo sviluppo psicologico e affettivo di ogni persona.
Il sorriso – o qualsiasi altro segno visibile dell’emozione del bambino – si rispecchia nel viso della madre, la quale risponderà – a modo suo, secondo la propria sensibilità - con un proprio «segno», fornendo la prova tangibile dell’efficacia del bambino nel modificare il mondo. Questo «potere» di agire rassicura il bambino, che si costituisce come essere di azione e di relazione.
Col tempo imparerà a fare da solo. Una volta che la presenza rassicurante dell’adulto sarà integrata a sufficienza, potrà giocare autonomamente, agendo sugli oggetti e sull’ambiente circostante con piacere e soddisfazione. Ma il gioco manterrà sempre questo suo carattere di esperienza condivisa, e costituirà ancora a lungo il nucleo centrale delle sue esperienze e dei suoi apprendimenti, fino al giorno in cui il gioco si evolverà (senza mai scomparire del tutto) in modalità più specifiche: sarà teatro, musica, danza, pittura, e ancora sport, scambio verbale, creatività e pensiero in tutte le sue declinazioni. Con una continuità di esperienza tra piacere corporeo e piacere intellettuale che solo una sconsiderata visione dualistica separa e suddivide, come se si trattasse di mondi separati. Il bambino è un essere «globale», non conosce questa differenziazione, e introdurla precocemente fin dalla scuola dell’infanzia significa forzare dei passaggi in nome di un'intellettualizzazione precoce che rischia di fondarsi su una base troppo debole per avere successo. Il bambino è un essere di «azione», ma non è una batteria: il movimento è la sua fonte primaria di rassicurazione e inibirlo è come costringere il bambino ad adattarsi ad abiti troppo stretti, trattenendo una tensione che «non può dirsi» e che quindi prende altre vie. Si ha la sensazione che la società contemporanea si indirizzi invece verso questa via: luoghi sedentari e costrittivi per l’apprendimento, e ambienti di movimento incessante per il corpo. L’anticipazione dell’apprendimento di discipline sportive è un segno di questo andamento: proporre sport organizzati a un bambino prima dei sei anni può rivelarsi un fallimento, che può allontanarlo dal piacere di vivere il proprio corpo con piacere e soddisfazione.
È come se non vedessimo l’ora di trasformare questo bambino in un piccolo adulto, come se vivessimo l’ansia di vederlo impegnato in qualcosa di interessante (per noi) e ben finalizzato. Come se lo volessimo nel più breve tempo possibile rendere un essere «efficace», cioè capace di ottenere risultati. Ci concentriamo così sulle sue prestazioni intellettuali e fisiche, perdendo di vista lo sviluppo emozionale e affettivo. Una delle grandi difficoltà dei bambini di oggi è proprio il ritardo nella maturazione affettiva, che incide pesantemente sulla loro autonomia come suglia apprendimenti.
Rispettare l’infanzia significa vivere con sufficiente serenità questo periodo straordinario e fondamentale per il bambino, dandogli e dandoci tempo. Significa svincolare il gioco infantile dalle nostre attese perché, per quanto possiamo essere esperti e competenti, non ne sapremo mai abbastanza sul gioco e sul senso che acquisisce quel particolare gioco, in quel dato momento, per quel singolo bambino. Sono momenti formativi straordinari che possiamo solo cercare di favorire ed accogliere, senza dirigere. Abbiamo però la possibilità come insegnanti, come genitori e in generale come educatori di prendere parte a questo spettacolo a titolo di spettatori d’eccezione. Di conseguenza, l’atto educativo primario diventa il silenzio, il nostro silenzio. È quanto di più difficile e complicato per gli adulti di oggi, che sul piano professionale, ma non solo, si concepiscono unicamente nel «fare».
E invece qui si tratta di «ascoltare»: questo è il nostro lavoro. Si tratta di farsi da parte e di lasciarsi affascinare dal gioco, mettendo via schede e tabelle per far posto a un ascolto empatico e diretto. Sono le «risonanze corporee ed emozionali» che guidano l’osservazione del gioco del bambino, è la nostra esperienza di esseri di relazione che dev’essere sollecitata, più che i nostri saperi. È una competenza che possediamo ma della quale ci fidiamo poco; è un’attitudine che va allenata, in senso professionale, ma che il genitore può vivere con leggerezza e piacere. Sappiamo bene che non è facile, essendo tutti noi immersi in una società tendenzialmente ansiogena e patologizzante, e che ogni bambino è atteso al varco con tabelle di raffronto e indici di valutazione.
Oggi nulla è scontato: essere buoni genitori e buoni educatori non significa fare come si è sempre fatto, ma compiere scelte, formarsi e informarsi. Può essere decisamente faticoso, ma al tempo stesso può rivelarsi un’avventura avvincente e per nulla scontata.
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