di Sergio Vitale
Il sesto articolo per il progetto "Chi sarà - Scienza in TrasformAzione" a cura di Paola Vitale e Liliana Putino, in collaborazione con Luisa Boffa e Sergio Vitale, pubblicati a partire dal 23 aprile 2020 all'interno della rubrica "Visto dal basso. Lo sguardo dello psicomotricista"tenuta da Sergio Vitale.
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Il corpo ha un’ottima memoria, e spesso ci spiazza. A me è capitato di constatarlo con la ripresa delle attività «in presenza», come si dice adesso. Rivedevo Riccardo dopo tre mesi di stacco e lo ritrovavo bardato di mascherina, in una sala praticamente sterilizzata e piuttosto minimale, giacché privata di una serie di elementi poco gestibili dal punto di vista igienico. Ma, prima annotazione, a lui questi particolari sembravano assolutamente non disturbarlo. Ha tirato dritto verso la sua panca, ha atteso diligentemente che io completassi il mio discorso piuttosto superfluo di benvenuto e subito dopo ha ritrovato uno dopo l’altro tutti i suoi giochi più cari. È salito sullo scivolo, poi sulla spalliera, ha accennato a qualche proposta finché non si è deciso e ha affidato i ruoli: Tu sei il lupo, io difendo l’orsetto. Presi dalla battaglia, siamo ripiombati in quel luogo senza tempo che è il gioco. Non c’erano esitazioni, tentennamenti, non detti: era come riprendere un discorso esattamente da dov'era rimasto. È stato così tutta la settimana, con ogni bambino.
Certo, questo non significa che non siano evidenti alcuni segni del prolungato isolamento: ci sono, in quasi tutti questi bambini, tensioni e regressioni evidenti dato che molti di loro non hanno avuto modo di dare voce abbastanza al loro disagio. Ma lì dentro, nello spazio e nel tempo del gioco, dove è il corpo che parla, il discorso era fluido, chiaro e ricco. E non era necessario spiegare nulla, il gioco aveva già assimilato tutto. La mascherina, ridotta a oggetto qualsiasi, sembrava totalmente deprivata del suo significato sanitario, così come ogni rituale di triage. Il potere del simbolico si mangia anche i distanziamenti sociali e a un metro o due di distanza si può trovare tutta l’intimità necessaria. Per alcuni bambini questo può essere più difficile, è vero, e talvolta dei contatti sono necessari. Ma la vicinanza, la prossimità, non va misurata in centimetri. Così come la cura verso l’altro non ha bisogno di gesti ridondanti e eccessivi.
Anzi, è molto meglio lavorare per sottrazione. In questo modo è possibile rintracciare il gesto sintetico, e catturarne l’essenza. Si potrebbe dire che la vicinanza è nella nostra intenzione, è nella nostra disponibilità ad essere prossimi, più che nella concreta aderenza dei corpi. Così come un sorriso è nella leggera increspatura degli zigomi e in quei sottili ripiegamenti intono agli occhi, piuttosto che in una bocca ricolma di denti.
Abbiamo appreso molto in questi tre mesi, ed è il caso di dircelo, per non sperperare tutto. Abbiamo acquisito un bagaglio di competenze e di sensibilità e perfino i più goffi o recalcitranti di noi hanno imparato ad aggirarsi come felini nei supermercati, danzando tra le corsie a distanze legali dagli altri acquirenti. Abbiamo imparato a «leggere» il corpo dell’altro, a indovinarne le traiettorie e le intenzioni, abbiamo parlato un po’ di meno, dietro quell'antipatica e soffocante mascherina, e forse ascoltato un po’ di più. I filtri alla comunicazione sono qualcosa di innaturale, di cui dobbiamo liberarci al più presto, ma è naturalissima la nostra capacità di aggirarli. L’assenza dell’altro ce l’ha reso in qualche modo più presente, dato che il suo esserci non era più così scontato. Oppure, quando c’era, era una presenza inquietante, potenzialmente pericolosa, suo malgrado. Così come la nostra, nostro malgrado. Su questa scia si sono sviluppate modalità comunicative verso le quali non ci sentivamo pronti, ma che comunque ci appartengono. Perché si sviluppano in quell'ambito di relazioni che attengono alla cura dell'altro e di sé.
Incontrare l’altro non significa investirlo della nostra presenza, soffocarlo di attenzioni o di parole; incontrare l’altro somiglia di più, forse, a quella danza maldestra che si è sviluppata nel rispetto delle distanze di sicurezza, e che inizia dal concepimento di uno spazio prossemico dove ogni corpo è ben individuato nella sua articolazione di persona in relazione con lo spazio e con l’altro. Significa quindi avvicinarci con cautela, manifestarsi concedendo all'altro il tempo necessario che a sua volta si manifesti. E leggere i «non detti», quell'universo di codici comunicativi con cui abbiamo perso confidenza: i cenni del corpo, le esitazioni, la tensione muscolare, persino gli odori e i colori dell’altro. Comunicare, specialmente con un bambino, che sta accedendo all'universo relazionale, significa perciò aggiustarsi progressivamente a una distanza tale da permettergli di fare a meno della nostra presenza fisica, iniziandolo così alla dimensione simbolica dell’agire. Che, in altri termini, significa manipolare con efficacia tutti i linguaggi che ci appartengono, non certo solo la parola.
È un campo immenso di apprendimento che riguarda in particolar modo le persone impegnate in ambito educativo e di Cura, nel senso più ampio del termine – il ché significa, a mio modesto parere, comprendere ogni persona, dato che nessuno può evitare di possedere in qualche modo un ruolo educativo all'interno della società cui appartiene. «L’educazione – dice Luigina Mortari – è una pratica di cura con cui chi-ha-cura promuove nell'altro la capacità di aver cura di sé e poiché il sé coincide con l’anima aver cura di sé significa aver cura dell’anima».
Nella foto: Bernard Aucouturier, fondatore della Pratica Psicomotoria Aucouturier ( PPA®) durante una seduta
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