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La Generazione della Quarantena e i loro insegnanti

Aggiornamento: 6 apr 2020


di Sergio Vitale Sono la Generazione della Quarantena. Un giorno, i nostri bambini e i nostri ragazzi, ne parleranno ai più giovani, raccontando di questo evento eccezionale, di come li ha cambiati e di come ha cambiato il mondo. Ma non possiamo immaginare le parole che useranno, perché di questo futuro, del loro futuro, non sappiamo quasi nulla. Li osserviamo oggi, tra una stanza e l’altra, stranamente adattabili a questi orizzonti ristretti; sospettiamo in loro qualità segrete, capaci di renderli resilienti più dei loro genitori. E forse è così, perché nella loro testa e nel loro corpo probabilmente sono già inseriti i codici necessari per entrare nel Nuovo Mondo, quello del dopo-Coronavirus. Siamo noi, invece, che annaspiamo e cerchiamo in tutti i modi di compiere questa ennesima piroetta esistenziale, non la prima a rivoluzionare le nostre vite e le nostre professioni. Che volto avrà la globalizzazione nell'epoca delle grandi pandemie? Qual è il vero aspetto di questa minaccia e che ruolo avrà nel plasmare la nostra vita sociale, la nostra economia, il nostro modo di trasmettere il sapere? Il nostro Paese, o meglio, il nostro Mondo, si è fermato il giorno in cui ha smesso di insegnare ai giovani. O almeno, il momento in cui ha smesso di trasmettere conoscenza nel modo ufficiale. È probabile che, in realtà, questo possa essere uno dei momenti più floridi nella produzione di saperi e perfino nella comunicazione di questi saperi alle generazioni più giovani. Sta avvenendo in un modo imprevisto e imprevedibile, nella disorganizzazione e nell'improvvisazione. In maniera anarchica, discontinua, ma sta avvenendo.


Una generazione di attempati adulti si è gettata nell'avventura di comprendere almeno le basi dell’ idioma digitale, completando al meglio una formazione che prima non era mai avvenuta in maniera piena. Si è scoperto, innanzitutto, che nell'eccezionalità va bene tutto, perché quel poco - di corpo, di presenza fisica, di emozioni e di contatti - che traspare dagli schermi di computer e cellulari, rimanda al reale, al normale, alla memoria di quei corpi. E perciò crea una comunicazione viva ed efficacie, dove il digitale – il mezzo – non sovrasta l’umano, perché è l’umano che cerca, in quegli schermi, l’altro umano. E si è scoperto, inoltre – o lo si dovrebbe scoprire – che l’apprendimento è individuale, personale, soggettivo. La separazione forzata lo ribadisce con forza: non esiste un corpo-insegnati e un corpo-allievi, esistono corpi e individui che, nell'assenza di oggi, rivendicano ancora di più la loro presenza. Doveva essere così prima, e tanto più dovrebbe esserlo adesso.

Molti insegnanti, con grandissima volontà, si affannano a ricercare l’uguale in un mondo chiaramente diverso: tentano di riproporre il vecchio metodo con mezzi nuovi, traducendo pari pari la stessa organizzazione scolastica nella vita di quarantena. A mio modestissimo avviso, questo non è il modo migliore. La comunicazione on line è pur sempre – per quanto accurata, di buona qualità – una comunicazione che comporta una traduzione continua dal virtuale al reale. Perché è sempre dalla persona che apprendiamo, non dal suo simulacro. È nella persona che si cerca il segreto di quella conoscenza – nel tono delle sue parole come nelle sue esitazioni, nelle sue certezze e nelle sue idiosincrasie – perché l’apprendimento di saperi è sempre conseguente a una domanda più profonda, esistenziale. «Come ha fatto lui? Qual è il modo in cui questa persona che ho davanti, il mio maestro, la mia insegnante, conosce questa conoscenza?» Non si apprendono i dati puri, le cose in sé, dagli insegnanti, si apprende il loro modo di apprendere, che è il modo di vivere quei saperi, di farli propri.


In questo senso l’insegnate è, è stato, e probabilmente sarà destinato a essere sempre di più colui che accompagna l’allievo, il discente, lungo un tragitto di apprendimento. E mi sembra che questo momento di crisi, di mutamento, possa rappresentare l’occasione per cogliere ancora più a fondo l’essenza di questa professione. Mancando la prossimità, il contatto fisico, manca anche il controllo. È probabile che questo generi una certa ansia, e che di conseguenza amplifichi gli sforzi degli insegnanti-da remoto per evitare che l’allievo gli sfugga tra le pieghe di giornate sonnolente e potenzialmente viziose. Così si rimpinzano i ragazzi e i bambini di video lezioni e di compiti, come se moltiplicando la presenza differita della scuola si evitasse loro di vivere il trauma delle sua assenza. C’è un sentimento protettivo, in fondo, dietro a questo atteggiamento. È ci sono spesso incontri profondi, soprattutto lì dove il virus ha colpito in maniera drammatica, che ricostruiscono più di ogni altra cosa il senso di comunità. Ma loro, i ragazzi, forse l’hanno già capito meglio di noi – che tra l’altro viviamo contemporaneamente anche un forte sentimento protettivo verso le nostre professioni – che la scuola non c’è più. E che probabilmente, quando tornerà ad esserci, sarà un po’ diversa da com'è oggi. In qualche modo più matura e disincantata, come loro.


Questa è l’occasione per gli adulti di contenere la propria ansia e di tradurla in fiducia. La fiducia verso ogni singolo allievo e verso ogni singolo bambino. La scuola esisterà sempre, perché è generata dal desiderio di apprendere, non dall'esistenza degli insegnanti. Sono gli allievi che fanno la scuola, non i professionisti che ci lavorano dentro. Gli insegnanti, in epoca di Quarantena, forse devono occuparsi soprattutto di mantenere vivo questo desiderio, dando forma e corrispondenza a una necessità che è vitale e soggettiva, non certo burocratica. La forma della scuola può variare all'infinito, adeguarsi alle necessità, diventare invisibile, leggera, trasparente. Ciò che rimarrà sempre è il desiderio e il piacere di apprendere dall'altro - che è un bisogno primario, come nutrirsi, proteggersi, crescere - e il corrispondente desiderio di insegnare, che è atto di Cura, nel senso più vivo del termine. È l’occasione, forse, per ritrovare l’essenza di questo atto, più che per replicare rituali un po’ spenti, facendo in modo che la scuola sia un punto di incontro tra desideri e bisogni reciproci. I ragazzi e i bambini di oggi stanno rispondendo a un appello al senso di responsabilità e al sacrificio che non ha pari nella generazione precedente: ed è una risposta concreta ed efficace. Forse non dobbiamo scusarci con loro, ma ringraziarli sì, per quello che stanno facendo. E il modo migliore per farlo è forse riconoscere il loro ruolo attivo e da qui far germogliare una didattica della fiducia e della responsabilità individuale.

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