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La prima "lezione": i genitori sanno già tutto


Si tratta del primo di una serie di articoli pensati per il progetto "Chi sarà - Scienza in TrasformAzione" a cura di Paola Vitale e Liliana Putino, in collaborazione con Luisa Boffa e Sergio Vitale, pubblicati a partire dal 23 aprile 2020 all'interno della rubrica "Visto dal basso. Lo sguardo dello psicomotricista" tenuta da Sergio Vitale.


di Sergio Vitale

Partiamo da un presupposto: non ci era mai capitato nulla di simile, navighiamo a vista. Di conseguenza non abbiamo nessuna idea chiara su cosa significhi per un bambino o per un ragazzo affrontare tutto questo. Cosa significhi abbandonare la scuola (o essere abbandonato?) per ritrovare una didattica a distanza, nelle diverse coniugazioni che ormai stabilmente assume in base alle età dei bambini e all’inventiva degli insegnanti. Non sappiamo cosa esattamente significhi e comporti, per loro, starsene a casa tutti i giorni, interrompere i contatti sociali – perlomeno quelli normali -, limitare i propri scambi a quelli familiari. Restringere il proprio orizzonte. Vivere in una dimensione sospesa, senza chiari pronostici sul futuro. Eravamo abituati – e così li avevamo educati – a vivere la prevedibilità del futuro e della nostra settimana, con una serie di impegni e incastri orari che scandivano ogni giornata; a pensare la continuità nel tempo e nelle relazioni. Improvvisamente, tutto cambia. E noi ci adattiamo. Abbiamo le capacità per farlo – qualità che non allenavamo più da tempo. È possibile che ci sia stata un’epoca, per noi adulti della Quarantena, in cui il futuro non era quel racconto un po’ scontato al quale eravamo abituati. Un’epoca in cui il domani era un incognita, e non avevamo un’idea ben precisa su quali connotati potesse assumere. Così come non avevamo idee chiare su quali connotati avremmo potuto assumere noi stessi. Ma ne abbiamo, chi più chi meno, una certa memoria, perché era l'epoca della nostra gioventù. Quando tutto cambia, per statuto. Cambia il corpo e cambia, di giorno in giorno, la tua prospettiva sul mondo. Queste riflessioni potrebbero iniziare così, con una constatazione piuttosto rasserenante: loro – i ragazzi – se la caveranno bene. Perché soffrono meno di noi l'imprevedibilità del futuro e il peso delle incognite, perché hanno molto da immaginare e da sognare. Possono vivere le altalene emotive perché è così che sono fatte le loro giornate. Loro sono i cacciatori-raccoglitori, che esplorano le radure e i boschi, vivendo di ciò che trovano; noi adulti i sedentari agricoltori, che pianificano la propria esistenza sulla base delle scorte alimentari accumulate. La resilienza, come l’empatia, è un’arte che va conservata ed esplorata, più che appresa da adulti. Tutto ciò che trattengono, al loro interno, l’hanno fatto proprio in età precocissima: sono le «solide basi» sulle quali hanno avuto la fortuna (non equamente distribuita, certamente) di erigere la loro crescita fisica e psicologica. Se questo è accaduto, ciò che semplicemente chiedono è che gli adulti continuino a rimanere coerenti con quei principi di base. Ecco di cos’hanno bisogno, primariamente, i bambini e i ragazzi del Lockdown: di adulti solidi, che continuino a fare il proprio mestiere, senza abbattersi e senza scoraggiarsi troppo, nel limite del plausibile. E, se questo non è sempre possibile, è meglio allora una comunicazione diretta, senza troppe censure, perché il non detto lavora dentro e in maniera subdola, scava buchi nei quali si può ficcare di tutto. Comunicare il proprio dolore e i propri dubbi, anche a un bambino, con le parole adatte, significa dare già una dimensione certa, quantificabile, a quei dubbi e a quei dolori, evitando che le fantasie più disastrose lavorino al posto nostro. E significa soprattutto rispettare quel bambino, vederlo nella sua proiezione di adulto, e permettere così anche a lui di potersi immaginare tale. Da psicomotricista, la prima «lezione» che vorrei dare ai genitori, è che non hanno nulla da imparare. Sanno già tutto. Sapete già tutto. Avete tutte le qualità e le competenze per sbrigarvela a dovere. I consigli e i suggerimenti vengono dopo, sono un di più. E solo in questo modo devono essere accolti. Perché attendersi che dei consigli risolvano i nostri problemi significa rinunciare in partenza al proprio lavoro di adulto: che è un lavoro coraggioso, creativo ed estremamente gratificante. Viviamo una fase di crisi, nel senso etimologico del termine: di scelte, di cambiamento. E ogni scelta va fatta sulla base di riflessioni. Questa rubrica vuole essere innanzitutto questo: un luogo di riflessione e di scambio. Io posso portare il mio contributo, che è una certa conoscenza – pratica e teorica – del valore evolutivo e terapeutico del gioco spontaneo. Vi parlerò di gioco, quindi. Del benessere che può dare a un bambino. Di come lo si può favorire anche negli spazi domestici. E soprattutto, del ruolo che l’adulto può avere verso il gioco spontaneo del bambino: il senso dell’osservare, del porsi in una dimensione di ascolto. Non diventeremo tutti psicomotricisti, dopo aver condiviso queste idee, ma il mio auspicio è che venga meglio compreso il ruolo benefico del buon gioco, anche in famiglia, dell’espressività corporea e del movimento come vettore di crescita e di rassicurazione del bambino.

Questa prossimità un po’ forzata, queste lunghe giornate passate assieme, tra genitori e figli, possono diventare l’occasione per una riflessione più profonda sulla relazione educativa. Così come per gli insegnati, la perdita del contatto diretto – della relazione come del controllo, sugli allievi -, la mancanza della vera scuola, così come la conoscevamo, può essere l'occasione per una riflessione sul proprio ruolo e sulla funzione dell’istituzione scolastica nella crescita cognitiva e affettiva del bambino. L’emergenza ci impone di pensare all'essenziale, alla sopravvivenza:




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