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La scuola "nomade". L'importanza del gioco nella scuola del futuro.


Il secondo articolo per il progetto "Chi sarà - Scienza in TrasformAzione" a cura di Paola Vitale e Liliana Putino, in collaborazione con Luisa Boffa e Sergio Vitale, pubblicati a partire dal 23 aprile 2020 all'interno della rubrica "Visto dal basso. Lo sguardo dello psicomotricista" tenuta da Sergio Vitale.



di Sergio Vitale


Questa volta ho chiesto a mio figlio di aiutarmi a scrivere l'articolo. Il fatto è che il linguaggio degli addetti ai lavori a volte è un po’ complicato e non è sempre facile rendere la profondità del gioco senza cadere in pericolosi tecnicismi. O semplicemente non sapevo come iniziare. Giosuè allora si è seduto paziente sul divano e ha detto "Ok, ti aiuto". Gli ho spiegato il problema e lui, indicando con lo sguardo un personaggio immaginario, mi ha detto: "Vedi, prima di giocare quel dinosauro non esiste. Ma adesso esiste. È questo che è bello!" La risposta mi è sembra esaustiva. "Ho capito" gli ho detto, e lui, anzi loro – Giosuè e il suo dinosauro - sono tornati in salotto a giocare. Giocare è sostare, il più a lungo possibile, in un’area condivisa di illusione. Lo diceva Winnicott, a riguardo del bambino piccolo, ma vale sempre. È qualcosa che somiglia al sogno, però con delle regole del mondo reale. Se dipingi, per esempio, devi saper usare degli strumenti e stare dentro a uno spazio delimitato; se interpreti un personaggio, devi essere credibile, almeno per te stesso; se si è in più di uno (e si è sempre in più di uno, anche quando si è da soli), a permanere in quell'area di magica illusione, ci si deve intendere, condividendo dei codici. Giocare significa "dare corpo" al proprio immaginario, e meglio s’imparano a maneggiare gli strumenti del gioco, più quell'immaginario potrà prendere vita. Da una parte c’è il sogno, la fantasia, dall'altra la conoscenza concreta del mondo, dei suoi limiti e delle sue regole. Il gioco ha quindi ha che fare, per sua natura, con il limite, con le norme, con l’apprendimento di "tecniche": il bambino libero di "fantasticare" potrà prendere dimestichezza con la realtà e gradualmente accettarla, integrando regole e apprendimenti come qualcosa di necessario a tenere vivo il proprio piacere di giocare. Ma perché questo avvenga devono essere rispettati (soprattutto da parte dell’adulto) due principi basilari: il gioco è soggettivo, ed è gratuito. Soggettivo ma non individuale: nasce come esigenza profonda di ogni singolo bambino e gli permette di incontrare gli altri. Gratuito perché non "serve" a niente (anche se serve a tutto): il gioco non è al servizio di nessuno, se non del piacere del bambino. Molto spesso agli adulti, perfino a quelli che si occupano di queste faccende, sfugge questo aspetto così importante del gioco. Lo vogliono finalizzato, circoscritto, ben definito. Temono forse l’imprevisto, la non immediata evidenza dell’obbiettivo, la divagazione. È comprensibile. Ma perdere il legame tra apprendimento e gioco spontaneo è una svista che può avere per effetto lo svilimento della curiosità personale. Il bambino è un esploratore, un ricercatore, un piccolo scienziato: la scommessa dell’adulto è quella di “nutrire” il suo piacere spontaneo di giocare con i materiali più diversi, in maniera creativa e imprevedibile, aiutandolo così a rappresentarsi in continuità, attraversando i diversi piani simbolici. Movimento, comunicazione, rappresentazione: è una trasformazione continua, che permette al bambino di passare dall'emozione intensa e dalla fisicità iniziale del gioco, a sensazioni via via più sfumate, accedendo con piacere a una dimensione più cognitiva del proprio agire, che gli permetterà di progettare, condividere, costruire, “mettere in scena”, senza lasciare da parte le emozioni. Questa netta suddivisione, tra emozione e apprendimento, è figlia di un equivoco madornale. Tutte le cose interessanti s'imparano emozionandosi. E questi sono gli apprendimenti che rimangono, tutto il resto non lascia traccia. Nel gioco il bambino si trasforma, quindi: passa da una tonicità intensa a uno stato di maggior rilassamento, dall'irruenza iniziale a movimenti più precisi, fino a situazioni dove il corpo è fermo, e il movimento lascia spazio alla gestualità, al pensiero e alle parole. Se avrà trovato un ambiente adeguato, tutto questo sarà possibile. Uno spazio a sua volta trasformabile, non rigido. Buona parte degli ambienti che sono destinati ai bambini non hanno questa caratteristica: si passa dalla rigidità del setting scolastico, tutti seduti e allineati per ore, a quella dei cosiddetti «gonfiabili» o delle giostrine, che obbligano a un movimento continuo e incessante. Non sono spazi trasformabili, ma rigidi - anche nella loro apparente «morbidezza» - perché rispondono a una funzione prestabilita dall'adulto e non al bisogno del bambino. E sono incompatibili tra loro. Il ché va a sottolineare questa rigida divisione tra ciò che attiene al corpo e ciò che riguarda il pensiero. Però è possibile pensare a un apprendimento che invece di tradire la spontaneità del bambino, faccia leva proprio su questa: senza inibire il corpo, e facendo della curiosità il suo motore principale. Un apprendimento "nomade", se volete, poco "stanziale": che però potrebbe ben adattarsi a una scuola che, per la prima volta, è stata “sfrattata” dal luogo fisico dell'apprendimento, ed è diventata altro. Lo ha fatto, e lo sta facendo, perché si è posta delle domande sul proprio ruolo e sul senso della trasmissione dei saperi. E allora si sta scoprendo che possono essere molti i luoghi dell'apprendimento e che forse ogni luogo e ogni attività possono essere occasione per conoscere. La casa può essere un libro ricchissimo; le attività quotidiane possono essere lo spunto per riflettere su significati e procedimenti. Si sta creando un ponte tra luoghi tradizionalmente separati – casa e scuola – che invece congiungendosi possono dare continuità all'esperienza dell'apprendere, senza per questo confondere il ruolo genitoriale con quello dell'insegnante.. Forse nella scuola del futuro, che questa emergenza sanitaria ci ha costretto, improvvisamente, a immaginare nel dettaglio, non ci saranno tanto “scolari” ma piuttosto bambini nella loro "interezza" che traggono dalla scuola - una scuola autorevole e poco invadente - lo stimolo e le direzioni per fare di ogni luogo della loro vita l'occasione per un apprendimento attivo, per lo sviluppo di un pensiero autonomo e di radicate "competenze”.



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1 komentarz


laura.bz
07 maj 2020

Buongiorno, sono coordinatrice pedagogica dei servizi del comune di Rosignano Marittimo (LI), da anni nelle nostre scuole dell'Infanzia e nei Nidi seguiamo un progetto pedagogico a base psicomotoria Aucouturier, per anni ci siamo formati con A.R.F.A.P. Complimenti, riuscite a descrivere in modo chiaro e semplice i punti su cui si basa la pratica psicomotoria e le modalità con cui operano gli educatori.


Polub
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