Ho sentito molte voci critiche su questa nuova dicitura e penso di essere d’accordo un po’ con tutte.
L’argomentazione principale mi pare sia quella che individua nel termine “merito” la possibilità o l'esplicita dichiarazione di una pesante penalizzazione per chi “demerita” – il che può avvenire per svariate ragioni, anche e spesso per il censo o per la provenienza sociale.
La scuola, giustamente dicono, dev’essere innanzitutto egualitaria, aperta, inclusiva: puntare dichiaratamente al merito è sospetto. Ma, aggiungerei io, anche anacronistico. Il ché fa tornare alla mente quel provincialismo fascisteggiante di cui conserviamo memoria e che il rappresentante di questo Dicastero sembra inconsciamente (e non per questo incolpevolmente) riecheggiare nelle sue ben note minacce alla oramai ben nota lettera della prof. del Liceo Da Vinci di Firenze.
Il merito, per intenderci, prevede una valutazione, o una classifica, per dirla in altri termini. E quindi rafforza ancora di più lo status dei “classificatori” che, va da sé, non consistono mai unicamente in elementi neutri, imparziali e incorporei, ma in persone in carne, ossa e, si spera, cervello. Basarsi sul criterio del merito ribadisce il concetto cattedratico della scuola e dell'università, la netta divisione tra chi insegna e chi impara, tra chi detiene il potere della parola e chi invece la parola ancora non la governa abbastanza. Io, nel mio piccolo, mi ero fatto un’altra idea del concetto di scuola e di formazione, e del suo divenire. Ma credo comunque di essere in buona compagnia. Una citazione, giusto per specificare meglio:
“La formazione deve essere un mezzo per impossessarsi della propria vita, per cui non si tratta più di far emergere attitudini funzionali all’inserimento nel mondo dell’adulto, ma di diventare all’altezza del compito di autocostruzione richiesto dal tipo di esistenza che va determinandosi. (…) Non si tratta di prepararsi a qualcosa di definitivo fuori da sé, visto che non si sa come sarà fatto l’avvenire, ma di prepararsi ad autodeterminarsi”.
È tratta da un testo del 2010, quindi non recentissimo, intitolato “Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica”, di Marcel Gauchet. Di citazioni così ne potremmo fare a bizzeffe, ma non mi pare il caso. C’è un’enorme letteratura disponibile sul mercato che ribadisce l’importanza di concetti come auto-formazione, auto-costruzione e perfino auto-valutazione. Anche le “Indicazioni nazionali per il curriculo della scuola dell’Infanzia e del primo ciclo di istruzione” (ecco, lo sapevo, arriva l’altra citazione) riaffermano l’importanza di “far sì che gli studenti acquisiscano gli strumenti di pensiero necessari per apprendere a selezionare le informazioni; promuovere negli studenti la capacità di elaborare metodi e categorie che siano in grado di fare da bussola negli itinerari personali; favorire l’autonomia di pensiero degli studenti, orientando la propria didattica alla costruzione di saperi a partire da concreti bisogni formativi.”
Da una parte quindi si sostiene la necessità di aiutare i bambini, gli adolescenti e i giovani a fare, montessorianamente parlando, da soli, dall’altra li si invita a serrare i ranghi, a rimettersi ordinatamente in fila in attesa del comando, promuovendo una scuola dell’ordine e della disciplina che non ha più ragion d’essere, non perché ordine e disciplina non siano concetti apprezzabili, ci mancherebbe, ma semplicemente perché non possono assurgere a criteri fondanti della scuola dell’oggi e del domani.
Ordine e disciplina posso essere, e effettivamente spesso lo sono, le risultanti di un’appassionata ricerca, di un accalorato sforzo comune in grado però di rispettare e farsi forte delle enormi differenze soggettive, così come dei diversi itinerari di vita che, anche per il singolo formando, possono essere continuamente rivisti, messi in discussione, costringendo a continue rielaborazioni del proprio percorso e che solo una mente agile e formata all’auto-costruzione può mettere in atto. La società di oggi è questa e della rigidità del merito non se ne fa nulla.
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