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Aveva ragione Pinocchio. Considerazioni su di un bambino atipico e la scuola

Aggiornamento: 5 apr 2020



di Sergio Vitale


Pinocchio di Collodi è uno dei libri più venduti della storia. I suoi personaggi e le sue vicende sono stati utilizzati per un numero indefinito di metafore. Si tratta di un bene comune, insomma, e credo che non farò torto a nessuno se utilizzerò un episodio ben noto del libro per esporre la mia, di metafora. Una metafora che ha a che fare con la scuola e con il disagio scolastico. Mi riferisco a uno degli episodi chiave del testo, quello da cui si origina la rocambolesca avventura del burattino, alla ricerca della via di casa e della propria identità. Strade non sempre convergenti, purtroppo; ma così è, non solo nelle storie dei burattini.

Pinocchio si avvia una mattina di buon ora per il suo primo giorno di scuola. Il babbo gli ha confezionato il vestitino di carta fiorita, un berretto di mollica di pane e gli ha procurato perfino l'indispensabile abbededario, vendendosi il cappotto. Pinocchio per la strada è convinto e ben disposto: "Oggi alla scuola voglio subito imparare a leggere; domani imparerò a scrivere, e domani l'altro imparerò a fare i numeri". Grazie alla sua preparazione sogna già di procurarsi un lavoro per ripagare il vecchio babbo con una casacca d'argento e oro, ma proprio in quel momento, mentre fantastica sui suoi successi scolastici, irrompe una musica di gran cassa e pifferi. E' il Gran Teatro dei Burattini. Da quel momento, Pinocchio cadrà preda di una curiosità indomabile. Per quattro soldi venderà l'abbecedarioe si procurerà il biglietto, ma appena entra nel teatrino accade qualcosa di straordinario: una "mezza rivoluzione" dice Collodi. Sul palco ci sono Arlecchino e Pulcinella, come al solito intenti a bisticciare, e una platea di bambini li guarda a bocca aperta. Ma ecco che Arlecchino vede Pinocchio in fondo alla sala e tutto si ferma: "Numi del firmamento! - esclama - Sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!..." Subito dopo tutti i burattini del teatro e i bambini urlano in coro "E' Pinocchio, è Pinocchio!" Finché Arlecchino non lo invita a salire sul palco: "Vieni qui a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno." Il resto della vicenda è nota: il terribile Mangiafoco (che poi, scopriremo, così terribile in fondo non è) irrompe sulla scena e il destino del povero Pinocchio è in bilico fino a quando (grazie alle sue abilità affabulatorie) non muoverà il proprietario del teatrino ambulante a compassione. Alla fine saluterà i suoi fratelli di legno con cinque monete d'oro nel taschino, e da qui si origina il resto dell'avventura: la vicenda del Gatto e la Volpe, l'incontro con la bambina dai capelli turchini, faine, serpenti, pescatori che lo vogliono friggere, bambini trasformati in somarelli, il pescecane (non balena: pescecane!), eccetera eccetera eccetera.



Mi sembra interessante innanzitutto notare che tutta la vicenda di Pinocchio si origini da qui, dal suo "mancato appuntamento" con la scuola. Pinocchio è il bambino monello per antonomasia, fa sempre di testa sua, si lascia sedurre dai bagordi e si fa infinocchiare dagli sconosciuti, non mantiene le promesse. E poi, è irrimediabilmente vivace, irrequieto. E' un bambino terribile, un bambino iperattivo, come minimo. O forse potremmo diagnosticargli un disturbo oppositivo-provocatorio. Il suo perdersi per la strada getta il lettore in uno stato costante preoccupazione. Ma l'apparizione di Pinocchio nel teatrino è qualcosa che, al contrario, può risarcirti da quell'apprensione, a patto che si guardi l'episodio dalla prospettiva del burattino. Pinocchio entra nel teatro come anonimo spettatore - fatalmente attratto da segnali pre-verbali che evidentemente risvegliano in lui una serie di memorie inconsce - ma viene messo immediatamente e inaspettatamente al centro della scena, chiamato per nome, salutato come fratello, riconosciuto. Pinocchio non ha una storia, al contrario degli atri bambini, non sa da dove viene; lì, per la prima volta è riconosciuto per quello che è, un burattino di legno, come tutti gli altri. Se Pinocchio è capitato lì, in quel teatro di burattini, invece di andare a scuola, è perché era esattamente lì che doveva andare. Non si è trattato di uno smarrimento della strada, ma di un primo ritrovamento.

Imparare non è così facile: apprendere è di per sé il viaggio, la trasformazione continua e ineluttabile da burattino a umano, o meglio, da essere-biologico a essere-culturale. Gli adulti in genere sono meno bravi in questo genere di cose, rispetto ai bambini: fanno una gran fatica a imparare. Una volta definita la loro forma, gli costa troppo cambiare di nuovo. Si tende a trovare una forma definitiva, e quando le richieste esterne (la famiglia, il lavoro, incidenti vari) ti chiedono di cambiare, si rischia la crisi. Perché abbiamo appreso a indossare quella maschera, e cambiarla costa un gran dispendio di energie. Già diventare padri e madri richiede delle trasformazioni profonde, e non tutti gli umani adulti di mia conoscenza ce l'hanno fatta senza passare dei guai. Però ci si dimentica di quant'era complicato, delle volte, in quell'epoca. Lo si dimentica anche perché molti bambini sono in effetti arrivati a scuola pronti per imparare - e continuano a farlo: non sono tutti in crisi! Hanno la corretta età mentale per farlo, possiedono basi solide, sia sul piano affettivo che su quello cognitivo: sono bambini che hanno vissuto pienamente la loro infanzia, stimolati il giusto, circondati da affetto e liberi di giocare. Ce ne sono, li vediamo tutti o giorni. Forse sono la maggioranza, ma di poco, ancora. Pinocchio no, non era uno di questi. Era profondamente immaturo: di legno. La sua struttura non lo rendeva modificabile: ap-prendere è un "prendere per sé" che ti modifica un po' ogni giorno. Lasci delle certezze, delle convinzioni che - per quanto approssimative - possedevano una loro coerenza. Il mondo magico dell'infanzia non è meno solido di quello dell'adulto, fino a quando non si mette a confronto con la razionalità. La mancanza di autonomia è compensata da un legame ancora totalizzante e proiettivo con mamma e papà, e il pensiero onnipotente (di cui il ragionamento di Pinocchio porta ancora evidenti tracce: in tre giorni imparerà tutto il necessario, e il quarto inizierà a guadagnare zecchini sonanti!) compensa la mancanza di efficacia sulla realtà. Fino a quando non si interrompe l'illusione, si tratta di un mondo che funziona. Apprendere la realtà, abbracciare in toto il codice della razionalità, significa perdere delle certezze di fondo. E' una rottura antropologica: si abbandona la cultura dell'infanzia per entrare quella del mondo adulto. Molti bambini - dicevamo - non sono ancora pronti per questo passaggio. Quindi la nostra cultura adulta reagisce attribuendo loro dei deficit che sottolineano gli aspetti di incongruità rispetto alle attese: non sta seduto durante la lezione frontale, non sa aspettare, si distrae, non sta in fila, non ragiona in maniera logica e contestuale, si oppone alle regole (pare quasi che non le conosca), e via dicendo. Raramente si è portati a pensare a questo deficit come a qualcosa di più globale: in senso culturale, o addirittura esistenziale. La reazione di insegnanti e genitori è orientata, il più delle volte, a colmare la mancanza, ad aggiustare ciò che sembra non funzionare. ma non viene colto l'insieme del problema: che è, in ogni caso, causa e sintomo di un'insicurezza di fondo, e ci parla di un'angoscia più profonda. Agire sul sintomo non porta quasi mai alla soluzione del problema, a parte quei casi, molto rari, in cui esiste veramente un problematica specifica. Il più delle volte, la difficoltà rilevata dall'insegnante è solo il sintomo di una incapacità di adattamento più generale. Riguarda la persona-bambino, non le sue funzioni.





Quello che prova Pinocchio, entrando nel teatro dei burattino, di fronte alle voci acclamanti dei suoi simili, è la gioia di essere riconosciuto. Non aveva avuto un'esistenza del tutto ortodossa, fino a quel momento, il piccolo Pinocchio: nato non tanto tempo prima da un tronco di legno destinato al fuoco, era figlio unico di padre poveretto, anziano e single. Dalla sua aveva certamente una forte ostinazione e un corpo irrequieto, forte e capace. Tante volte l'agitazione motoria è il sintomo di un corpo che reagisce e non si arrende alle difficoltà: è un segnale di vitalità, più che la prova di un deficit. I bambini meritano di essere guardati in senso longitudinale, oltre che trasversale. I test, per esempio, fotografano - con una certa precisione, tutta interna a una loro logica - quello specifico momento del bambino, ma non guardano alla sua storia. La sofferenza di Pinocchio era di tipo esistenziale: non possedeva una storia, doveva averne una. Da qui parte tutta la vicenda formativa (e forse terapeutica) del burattino che diviene umano. Ci vuole un romanzo intero per questa trasformazione. Carlo Lorenzini, detto il Collodi, aveva pensato a una breve avventura per una pubblicazione a puntate nel Giornale dei bambini, un allegato settimanale del quotidiano Il Fanfulla, a partire dal 1881. Le vicende del burattino di legno ottennero subito una grande attenzione, da parte di un pubblico di lettori bambini e adulti. La storia doveva concludersi molto più brevemente e in maniera tragica, con la morte per impiccagione del povero illuso gabbato dai cattivi. Ma i lettori non lo permisero. Scrissero numerose lettere all'indirizzo dell'autore per fargli riprendere la vicenda. Non potevano permettere che Pinocchio non riuscisse nel suo processo di trasformazione. La storia aveva già aperto un varco nell'immaginario collettivo e evidentemente il Lorenzini andava solo stimolato, perché di lì a poco emergerà dalle sue pagine una carrellata di incredibili e meravigliosi personaggi, tutti dotati di una spessore profondo, metaforico e archetipico. Non a caso è un libro che parla ancora alla fantasia dei lettori, a ogni latitudine, secondo solo al Piccolo Principe come vendite. Spinto da lettori e editore, Collodi fu incoraggiato a prendersi cura del proprio personaggio, ne fece un eroe atipico e portò a compimento la sua avventura. Così come dovremmo fare noi con ogni bambino che non sta bene: trattarlo con attenzione, riconoscerlo come eroe, accompagnarlo fino a quando non saprà fare da solo. Anche se la soluzione spesso non è immediata. La stesura del romanzo portò via al Collodi circa tre anni di intenso lavoro, il tempo di una vera e propria terapia. A volte le soluzioni non sono semplici e immediate. Ma nessuna cosa seria lo è.




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